Zafferano

Ovidio, nel suo poema epico-mitologico “Le Metamorfosi”, narra di un giovane ragazzo di nome Crocus: questi, sulla riva di un fiume, incontrò una ninfa di nome Smilace. La ninfa era bellissima e Crocus se ne innamorò. Zeus, venuto a sapere del loro amore, si ingelosì e trasformò Crocus in un fiore magico. Gli stigmi di questo fiore, di colore rosso purpureo, potevano condire il cibo di tantissime persone tutte insieme, colorare l’acqua di una grande piscina, curare il mal di testa, aiutare le mamme durante il parto e potevano servire persino a colorare quadri e abiti. Era un fiore bello, nobile e molto ricercato.
Ad oggi, gli storici confermano che questo fiore veniva coltivato anche dagli Arabi, i quali lo chiamavano Zafaran (che vuol dire “giallo intenso”, perché giallo era il colore che gli stigmi davano nella tintura e nella spezia), in Asia e persino dagli antichi Romani che abitavano nelle zone di Cascia (all’epoca territorio Sabino). La conquista da parte dei Longobardi, però, portò anche alla distruzione di tutti i campi, compresi quelli coltivati a Zafferano. Gli arabi coltivarono lo Zafferano per centinaia di anni fino a quando lo commercializzarono in Spagna durante il Medioevo. Furono gli stessi spagnoli ad importarlo nella zona de L’Aquila, dove venne coltivato per alcuni secoli. Delle testimonianze storiche, presenti in alcuni manoscritti nella biblioteca di Cascia, invogliarono gli agricoltori locali a coltivare nuovamente lo Zafferano, esattamente con i bulbi recepiti dalle tradizionali coltivazioni aquilane.

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